Ritratto di un artista da adulto (estratto da Sentire Ascoltare di marzo) - di Tommaso Iannini

Cambi di rotta e ritorni al futuro

Beck è sempre stato un artista “alternativo” controcorrente. Lo
era agli esordi dove, preso tra i due fuochi del rap e del grunge,
aveva trovato una sua terza via, e lo è ancora alla fine degli anni
‘90 a livello di mainstream, in mezzo al nu metal e al pop di MTV.
Controcorrente Beck rimane anche nelle sue scelte “conservatrici”.
Sea Change (2002) è uno dei suoi album più discussi. Ed è
l’ennesima sterzata di questo trasformista della canzone d’autore.
Il disco registrato agli Ocean Way Studios con Nigel Godrich si
presenta come la sua raccolta di canzoni più omogenea nell’atmosfera
e nelle scelte stilistiche, all’insegna di un pop acustico
elaborato in studio, di tono introspettivo e dal respiro armonico
corale, completo di arrangiamenti d’archi eleganti e drammatici
sempre a cura di papà David Campbell.
Intimo nel contenuto e quasi sinfonico nella forma, senza essere
barocco, si tinge di psichedelia in Golden Age, un lento maestoso
che ricorda alla lontana la Five Stop Mother Superior Rain dei
Flaming Lips, e in molte delle tracce successive. Il mood malinconico,
per non dire depresso, è influenzato dalla rottura con la
fidanzata storica Leigh Limon, avvenuta due anni prima e una
ferita ancora aperta nel momento in cui sono state scritte le canzoni.
Lost Cause, Lonesome Tears, It’s All In Your Mind, Guess I’m
Doing Fine, sembrano allacciarsi direttamente a quell’esperienza.
Il cambiamento più repentino è addirittura quello a livello di
testi, in cui Beck abbandona i giochi di parole ironici e astratti per
raccontare i suoi stati d’animo con un tono confessionale mai sentito
prima. Sea Change viene accostato al Bob Dylan di Blood on
the Tracks, a Nick Drake per il tono intimista e a Serge Gainsbourg
per la patina sinfonica degli arrangiamenti (c’è anche una sua
citazione sotto forma di sample); artisti che – Dylan a parte ma
per altri motivi – difficilmente sarebbero stati citati dalla critica
per i dischi precedenti.
Guero (2005) salta a piè pari, all’indietro, la fase del suo predecessore
e si ricollega al duo Odelay/Midnight Vultures contando
sulla rinnovata collaborazione con i Dust Brothers. Non potendo
rivaleggiare con Odelay per ispirazione e qualità di scrittura, riprende
comunque i contorni dello stesso collage electro-acustico
puntando più in direzione di un patchwork di hip-hop, rock, funk
ed elettronica a volte coinvolgente – l’azzeccato singolo E-Pro e
una Girl che strizza l’occhio al pop, o la conturbante Black Tambourine
(inclusa anche in una scena memorabile di Inland Empire
di David Lynch) – e altre un po’ più standardizzato, sbilanciato
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su ritmi dance che si prestano bene, tra l’altro, per l’operazione di
remix integrale Guerolito. E un disco ondivago è anche il successivo
The Information (2006). Per la prima volta la musica di Beck
dà l’impressione di essere diventata un po’ ridondante anche
nel suo – ci rendiamo conto benissimo che di ossimoro si tratta
– prevedibile eclettismo. Ci si accontenta, ed è un bell’accontentarsi,
del groove serrato di Nausea, del funky sintetico di Cellphone’s
Dead o della melodia facile di Think I’m In Love, dell’ottima
produzione (Nigel Godrich) e di un album che in generale satura
l’ascolto di spunti per lasciare comunque in bocca un retrogusto
ancora buono.
Dalla colpa al nuovo mattino
La cura Danger Mouse di Modern Guilt (2008) porta Beck a spaziare
verso sonorità di chiara reminiscenza sixties riviste alla luce
del presente. Così si riscopre neobeatlesiano nella title-track e in
Volcano, e dimostra tra l’altro di sentirsi perfettamente a suo agio
in quei panni, che la spalla scelta lo aiuta a cucirsi con precisione
sartoriale. Dai ritmi compressi e sincopati di Orphans Youthless
e Replica al riff e al boogie di Soul of a Man e Profanity Prayers è
tutto un “vecchio stile con suoni nuovi” e un viceversa. Per quanto
stimolante, è un disco a cui manca ancora di qualcosa a livello
di songwriting per rivaleggiare con le sue opere migliori. Alla
fine degli anni Zero, Beck vive un periodo di relativa inattività dal
punto di vista discografico, ma non sparisce affatto dalle scene.
Lo si trova attivissimo in veste di produttore a fianco di Thurston
Moore, nella parentesi semiacustica del buon Demolished
Thoughts, di Stephen Malkmus e dei suoi Jicks per Mirror Traffic
e soprattutto di Charlotte Gainsbourg in IRM. Soprattutto,
perché l’album della figlia dell’indimenticato Serge è per buona
parte farina anche del sacco del signor Hansen, avendo lui scritto
la maggior parte delle canzoni e curato la confezione su misura
per la vocalità di Charlotte, aiutandola a dare il meglio di sé tra
alt-folk e un piglio da chanteuse moderna ed eclettica.
E lo si vede poi alle prese con due, anzi con tre progetti sorprendenti.
Il primo è il Record Club. Una collana – così potremmo
definirla – di dischi tributo registrati in un solo giorno durante
un meeting informale con amici musicisti. Nascono così remake
di album interi di Velvet Underground (il primo, mitico), Leonard
Cohen (Songs of Leonard Cohen), Skip Spence, Yanni e, forse
la scelta più curiosa di tutte, gli INXS (Kick). I nomi coinvolti
sono da acquolina, tra Wilco, Liars, Thurston Moore, Devendra
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Banhart, l’attore (e cognato) Giovanni Ribisi, e, naturalmente
lui. Come se non bastasse, nel 2013 ecco Song Reader, una serie di
canzoni originali pubblicate solo su spartito, di cui il sito ufficiale
ospita le versioni realizzate da musicisti di ogni latitudine. Una
sorta di album “social” nell’era della condivisione esasperata, e
allo stesso tempo la riscoperta di un tipo di fruizione della musica
legata all’epoca pre supporti fonografici. E ancora, c’è il ruolo
da remixer d’eccezione per la musica di Philip Glass. E prima del
nuovo disco, il Nostro ha battuto sentieri ben diversi con i singoli
Defriended, I Won’t Be Long e Gimme, che guardano verso una
dance e un pop elettronico più sperimentali.
Di Morning Phase, l’album da poco uscito nei negozi, i maligni
hanno già scritto che è un numero del Record Club dedicato
da Beck a se stesso. È un giudizio ingeneroso per un album che
tradisce un programma ben preciso, nella scelta di riproporre il
tema produttivo e il tipo di sonorità di Sea Change, rendendo
omaggio alla grande tradizione della West Coast degli anni ‘60 e
‘70. È un disco di classic rock più raffinato di Mutations e molto
più positivo nel mood rispetto al suo omologo, prodotto e arrangiato
in maniera esemplare; senza limitarsi al compitino, e non
è meno personale di quelli che lo hanno preceduto. È in fondo
soltanto l’ultimo, provvisorio tassello di un puzzle che per fortuna
si espande di progetto in progetto con particolari e spazi nuovi
come quello che ci attende ora. Si parla già del successore di
Morning Phase, in cui, dopo aver parlato anche di un fantomatico
erede di One Foot in the Grave, Beck dovrebbe lavorare insieme a
Pharrell Williams. Una coppia esplosiva o un passo azzardato?
Presto per dirlo, i risultati parleranno da soli. Una cosa appare
chiara: anche dopo aver passato in rassegna i passaggi più importanti
della sua carriera cercando di ricomporre il suo ritratto, c’è
sempre un tassello mancante che ci porta avanti, dove il nostro
protagonista dimostra di saperci ancora sorprendere e spiazzare.
All’alba dei vent’anni di carriera e con un nuovo giorno aperto da
un luminoso mattino.

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